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Abdallah Daar: fare ricerca a forte impatto

Abdallah Daar: fare ricerca a forte impatto

Il successo nella ricerca, spiega lo scienziato omanita, è figlio di impegno, valori sociali e di fallimenti.

Abdallah Daar, membro della TWAS, è legato personalmente e professionalmente al Sultanato dell'Oman. L'Oman è un paese che sta vivendo un notevole sviluppo scientifico grazie alla creazione del Research Council [struttura incaricata di individuare e sostenere la ricerca di eccellenza e di concorrere al trasferimento della conoscenza], e all'impegno profuso in settori quali salute, tecnologie della comunicazione e, in generale, nella promozione della scienza.

Nonostante queste spinte innovative, Daar ritiene che l'Oman dovrebbe incrementare gli sforzi e avviare piani di ricerca più focalizzati e a lungo termine.

"Per avere un impatto significativo la ricerca applicata deve poter cambiare le cose per un luogo o un popolo", ha spiegato Daar in una recente intervista. "In altri termini: deve tradursi in un prodotto, in una nuova politica o in un cambiamento visibile. E i cambiamenti devono essere applicabili anche altrove, così da permettere a un numero sempre maggiore di persone di beneficiarne".

Il suggerimento di Daar vale, in particolare, per i paesi in via di sviluppo. Nel corso di un'intervista rilasciata a giornalisti omaniti durante il General Meeting della TWAS, nell'ottobre 2014 a Muscat (capitale del Sultanato), Daar ha toccato temi che vanno dallo sviluppo di obiettivi mirati di ricerca, ai potenziali benefici insiti nella fuga di cervelli. Ma, soprattutto, ha posto l'accento sull'importanza di saper accettare i fallimenti.

Abdallah Salim Daar è nato in Tanzania, vive in Canada e ha forti legami con l'Oman. È stato fondatore e presidente del dipartimento di chirurgia della Sultan Qaboos University, dove ha avuto un ruolo importante nella realizzazione della scuola di medicina. Ha lavorato per oltre un decennio in Oman. Le sue ricerche all'Università di Toronto e in altri istituti si sono focalizzate sul ruolo che genomica e biotecnologie hanno avuto nel ridurre le diseguaglianze sociali fra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati.

Oggi Daar insegna Clinical Public Health e Global Health presso la Dalla Lana School of Public Health (DLSPH) di Toronto, Canada. Insegna anche chirurgia generale presso la facoltà di medicina dell'Università di Toronto. È anche membro del panel scientifico delle Nazioni Unite, o Sab (Scientific advisory board), ed è membro della TWAS dal 2007.

Daar collabora assiduamente con Peter Singer, accademico della TWAS, all'iniziativa Grand Challenges Canada, dove fino a qualche tempo fa faceva parte del consiglio direttivo e dove, tuttora, ricopre il ruolo di presidente del comitato scientifico consultivo. Uomo di grande esperienza e con una solida carriera alle spalle, Daar ha una visione ben precisa di come dovrebbe essere la ricerca scientifica, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove vi sono priorità che altrove non esistono. In primo luogo, dice Daar, bisogna focalizzarsi sulle necessità locali, affinando il pensiero critico e la capacità di progettazione a lungo termine.

Il testo che segue è tratto da un'intervista che Daar ha rilasciato, ridotta e adattata da Cristina Serra, staff writer alla TWAS.

L'Oman è una nazione ancora giovane in cui la scienza sta acquisendo importanza. Quali sono gli indicatori che definiscono una ricerca di buona qualità?

Se l'obiettivo della scienza è portare vantaggi all'umanità, allora la ricerca (di eccellenza) deve produrre risultati sostanziali. Deve cioè avere un impatto positivo in un luogo o all'interno di una comunità. In altre parole, deve tradursi in un prodotto, in una nuova politica o intervento, e ciascuno di questi dev'essere incrementato in modo da produrre ricadute benefiche per un numero di persone sempre maggiore. Idealmente, poi, una ricerca di eccellenza dovrebbe essere pubblicata su riviste ad alto impact factor. Se gli scienziati non pubblicano i propri risultati, il loro lavoro può addirittura passare inosservato e non riuscire ad avere alcun tipo di impatto. Come si può ben immaginare, il processo che porta da un'idea in embrione ai suoi effetti nel mondo reale è lungo e, spesso, tortuoso. Non dobbiamo dimenticare che la ricerca scientifica di base e la produzione di nuove conoscenze sono importanti di per sé.

Vivere in un paese occidentale fa di lei un osservatore privilegiato delle differenze fra la scienza dei paesi sviluppati e in via di sviluppo. Nota differenze significative tra occidente e mondo arabo sul modo in cui si fa ricerca?

Sì. La prima differenza che balza all'occhio è il diverso approccio alla ricerca dei Paesi occidentali, che conosco molto bene. Le loro scelte e le loro politiche sono focalizzate e ben inserite all'interno di programmi di ricerca articolati, che seguono binari ben definiti, e che tuttavia sono flessibili e aperti al cambiamento e a nuove idee. Nel mondo arabo, invece, spesso la ricerca manca di progettualità, e risente di una certa casualità opportunistica. I ricercatori non attuano una pianificazione strategica a lungo termine, e passare da un progetto isolato a un altro è certamente controproducente. C'è una seconda importante differenza, che riguarda l'identificazione di priorità strategiche di ricerca. Ricerche di spessore come quelle che si producono nelle migliori università occidentali si possono produrre anche nel mondo arabo, a patto che ci si sforzi di identificare priorità a diversi livelli - nazionale, locale, ma anche a livello di università e di dipartimento -, che si cerchi di attrarre i migliori scienziati, di creare gruppi di ricercatori competitivi includendovi anche studenti, e che si finanzino questi gruppi in maniera consistente per periodi prolungati. Studenti e giovani scienziati devono possedere una solida formazione, anche maturata all'estero, presso Istituti stranieri. Bisogna perseguire l'eccellenza. Tutto ciò può sembrare un'utopia, ma si tratta di obiettivi a lungo termine.

Ci sono esempi che riguardano l'Oman?

Mi vengono in mente due esempi. L'Oman possiede alcune delle più interessanti risorse geologiche nel mondo e se qualcuno desidera studiare geologia l'Oman è, molto probabilmente, il posto migliore per farlo. Questo, purtroppo, non si verifica in modo sistematico. E dunque mi chiedo se l'Oman faccia davvero buon uso delle proprie risorse geologiche ... Forse no, non al momento. In secondo luogo, l'Oman intrattiene forti legami con l'Africa Orientale e lo Zanzibar, e connessioni con l'Oceano Indiano. Sarebbe importante avviare progetti di ricerca che coinvolgessero anche l'Oceano Indiano, come obiettivo a lungo termine. Arabi e popoli dell'Africa Orientale hanno stabilito rapporti culturali fin dal X secolo d.C., forse anche prima. Avviare ricerche di natura sociale, linguistica, storica o economica, o riguardanti i principali aspetti commerciali di quest'area darebbe un notevole contributo culturale al sapere umano. Fortunatamente, l'Oman ha istituito il Research Council, un organismo relativamente giovane e assai attivo. Uno dei suoi pregi è la capacità di finanziare la ricerca in modo programmatico, piuttosto che in modo casuale.

Lei ha lavorato a lungo in Oman. Oggi però le sue ricerche hanno un respiro più internazionale. Ha mai pensato di avviare qualche progetto di ricerca di valenza nazionale?

Forse dovrei trasferire qui le mie ricerche ... è una possibilità. Ne ho parlato con scienziati della regione del Golfo e con il mio collega Peter Singer. Abbiamo proposto di istituire anche qui un programma Grand Challenges Paesi del Golfo, per favorire la nascita di partnership, individuare temi di ricerca prioritari, premiare l'eccellenza e ottenere risultati rapidi in grado di cambiare le cose. Attualmente esistono inizitive Gran Challenge in diversi Paesi, fra cui India e Brasile. Un settore in cui l'Oman potrebbe assumere la leadership riguarda un problema sanitario che affligge queste regioni: si tratta della sindrome nota con l'acronimo MERS (Sindrome Respiratoria del Medio Oriente) che colpisce i cammelli e fa ammalare le persone. Ma l'Oman potrebbe anche incrementare il livello di allerta nei confronti di possibili scoppi di epidemie come Ebola. E credo si debba anche tenere a mente quanto sia importante saper accettare gli errori.

Che cosa intende per "accettare gli errori"?

Intendo dire che molti ricercatori in queste regioni non sono abituati al falllimento. Non lo accettano perché la cultura locale vede il fallimento come un evento terribile. Ma perché vi sia innovazione bisogna saper accettare in certa misura anche l'insuccesso. Così, credo sia importante insegnare questo concetto almeno alle nuove leve e a chi si impegna per creare innovazione: per ottenere il successo dobbiamo insegnare il fallimento.

Lei siede in veste di consulente in molte organizzazioni internazionali. Che peso ha questa sua esperienza?

Ho il privilegio e la fortuna di rivestire diversi ruoli consultivi in numerose organizzazioni internazionali. Ho capito quanto sia importante fornire opinioni chiare e oneste, imparare da colleghi e non aver timore di suggerire migliorie in programmi come quelli delle Nazioni Unite. Credo fermamente che i benefici maggiori derivino dal pensare ai benefici che possono riguardare l'umanità, senza restringere il campo a benefici che possono riguardare solo alcuni popoli in particolari regioni della Terra.

Formazione locale ma esperienza all'estero: vi sono scienziati, anche nel mondo arabo, che si recano all'estero per perfezionare la propria preparazione. Che ne pensa della fuga di cervelli, applicata al mondo arabo?

L'Oman è, in definitiva, una nazione fortunata. La maggior parte degli studenti che si sono formati con i miei colleghi sono ancora qui, e molti di essi occupano ruoli di rilievo. Molti non se ne sono mai andati. Ciò si deve in parte alla meravigliosa cultura omanita che li trattiene in loco, ma anche al fatto che in tempi recenti i salari sono aumentati e dunque la fuga dei cervelli non interessa davvero questo paese, al momento. Gli omaniti sono un popolo ospitale. Tuttavia, per tornare al problema della fuga di cervelli, vedo anche degli aspetti positivi in questo fenomeno. Per esempio il fatto che ci sia una circolazione di idee e di denaro proveniente dall'estero (da parte dei lavoratori che sono emigrati). In secondo luogo, aumentano le competenze specifiche e si creano nuove reti e nuove connessioni. Viaggiando e interagendo con altri popoli e paesi, la mente si apre e diventa più elastica, le persone diventano flessibili. Dopo essersi trasferite all'estero alcuni decidono di stabilirsi in paesi stranieri, e di tornare di quando in quando a casa per brevi periodi per avviare collaborazioni o per insegnare. Così invece di condannare del tutto la fuga di cervelli, è più importante pensare al fenomeno anche in termini positivi, cercando di sfruttare la meglio le persone che se ne sono andate. Si può pensare alla fuga di cervelli anche in termini positivi, non solo negativi.

Che consiglio darebbe a giovani scienziati omaniti che vogliano fare ricerca di qualità?

Il consiglio che darei vale per tutti gli scienziati: quando si decide di conseguire un dottorato, bisogna aver ben presente che si tratta di un percorso che deve insegnare a ragionare in modo critico, bisogna osare e non limitarsi a restare ancorati alle sicurezze. All'inizio, quando la carriera è ancora da costruire, è meglio imparare le tecniche che consentono di fare ricerca, piuttosto che cercare di diventare esperti in un settore molto specifico. L'importante è essere aperti a nuove idee, trovare un mentore che ci segua, ignorare chiunque cerchi di intrappolare la nostra mente e il ragionamento critico, perché le università sono piene di persone che cercano di soffocare nuove iniziative. All'inizio della sua carriera uno scienziato non dovrebbe focalizzarsi sul problema denaro e finanziamenti, ma cercare di pensare in modo aperto e critico, sviluppando la sua naturale curiosità. Questo vuol dire fare ricerca. Ma c'è un altro consiglio che vorrei dare e riguarda i giovani omaniti. Quel che dovrebbero fare è imparare ad ascoltare e ad affrontare i problemi senza un'ideologia precostruita. Ascoltare è una delle cose più difficili da imparare, nella vita. Un'altra è imparare a discutere nel rispetto delle divergenze di vedute e opinioni, come insegna il Corano. Non bisogna pensare che persone con idee diverse dalle nostre siano nemici. Questa è una lezione difficile, ma è necessario impararla.

 

Cristina Serra

 

Chi è Abdallah Salim Daar

Abdallah Salim Daar è un accademico della TWAS dal 2007. Attualmente è professore di salute pubblica e globale presso la Dalla Lana School of Public Health di Toronto, Canada, e insegna chirurgia alla facoltà di medicina della stessa Università. È il fondatore della Global Alliance for Chronic Diseases (2009-2011), organismo che coordina un consorzio di progetti di ricerca su malattie croniche non comunicabili come diabete, malattie cardiovascolari, cancro e malattie polmonari, approfondendo in particolare il problema a livello di paesi a basso e medio reddito pro capite e di fasce di popolazione svantaggiate nei paesi ad alto reddito. Daar è stato il presidente e fondatore del Consiglio consultivo del United Nations University International Institute of Global Health. È membro e consigliere del Segretario Generale delle Nazioni Unite all'interno del Consiglio scientifico (Scientific Advisory Board) UN istituito di recente.

Durante la sua carriera Daar ha prodotto contributi significativi in diversi settori: biomedicina, trapianto d'organi, chirurgia, salute globale e bioetica. Si è interessato anche di molti altri temi fra cui il problema dei finanziamenti alla ricerca internazionale, l'innovazione nei paesi in via di sviluppo, l'insegnamento e la ricerca.

Daar è presidente del Consiglio scientifico consultivo di Grand Challenges Canada ed è membro del Consiglio dei direttori di Genome Canada, che finanzia ricerche di genomica su larga scala. Prima di trasferirsi in Canada, ha fondato e presieduto il dipartimento di chirurgia alla Sultan Qaboos University.

Nella sua carriera ha ricevuto numerosi premi, fra cui il Patey Prize della Surgical Society of Great Britain, il titolo di Hunterian Professorship del Royal College of Surgeons of England, il premio Avicenna dell'UNESCO per l'Etica della Scienza, e il premio Anthony Miller per l'Eccellenza nella Ricerca, all'Università di Toronto.

Daar ha firmato oltre 360 articoli scientifici che sono stati pubblicati da riviste ad alto impact-factor; ha pubblicato sei libri, l'ultimo dei quali "The Grandest Challenge - Taking Life-saving Science from Lab to Village". Attualmente sta scrivendo il suo settimo libro: "Garment of Destiny".